Su “Il paese degli altri” di Leila Slimani

“Per essere donne libere bisogna essere un po’ egoiste”, dice la scrittrice franco-marocchina Leila Slimani in questa intervista con Elle del luglio scorso, a proposito dell’uscita in Italia del suo ultimo romanzo Il paese degli altri (La Nave di Teseo 2020, trad. dal francese di Anna D’Elia). Libere – ma non completamente – sono le protagoniste femminili di questo romanzo, il primo che abbia mai letto di questa autrice nata a Rabat nel 1981, vincitrice del Goncourt nel 2016 e che oggi è una delle autrici più lette e apprezzate di Francia.

Mathilde è una giovane e impaziente francese dell’Alsazia che sul finire della Seconda guerra mondiale si innamora di Amin, ufficiale marocchino impiegato nell’esercito francese decorato per il suo coraggio in battaglia. Finita la guerra i due si sposano e Mathilde, poco più che ventenne, lascia la Francia per volare in Marocco dove Amin la attende per portarla a pochi chilometri da Meknes, in una proprietà di campagna ereditata dal padre che l’ex ufficiale ha intenzione di trasformare in una moderna fattoria, alla pari con quelle dei coloni francesi che vivono nei dintorni. Sono gli anni della nascita del nazionalismo marocchino che contesta il protettorato francese e che piano piano si trasforma in vero e proprio movimento di liberazione culminante con la fine dell’occupazione francese.

Mathilde e Amin vivono appartati dal ribollio della città e tirano su i due figli, Aisha e Selim, isolandoli dal contesto sociale e politico di Meknes. Sarà solo quando Aisha si troverà a frequentare una scuola privata cattolica francese che si accorgerà, per la prima volta, della sua condizione di figlia di una francese e di un “indigeno”. Nel frattempo, Mathilde, l’alsaziana alta, bionda e dagli occhi verdi, impara l’arabo e il berbero, avvia un ambulatorio per aiutare le donne della zona, si integra in quel paese “degli altri”, spesso inospitale, duro e spietato dove i francesi la guardano dall’alto in basso per il suo matrimonio misto e i marocchini la respingono per il suo essere francese. La sua ribellione è stata il matrimonio con Amin, l’amore per quell’uomo introverso e duro, capace di (pochi) gesti d’amore e terribili scoppi di violenza.

Poi c’è Selma, la bellissima e sfrontata sorella di Amin: ribelle per natura, si accorcia le gonne, va al cinema di nascosto, ha un gruppo di amici con cui fuma e discute di libertà e modernità, ruba i soldi all’anziana madre per acquistare lattine di Coca Cola e sigarette. Ma vive in una realtà e in una famiglia profondamente patriarcali, dove le ribellioni non sono ammesse e il potere degli uomini della famiglia non perdona.

Infine, c’è la piccola Aysha, incredibilmente chiusa ma incredibilmente intelligente che nell’agosto del 1955, quando si conclude il libro, assiste all’inizio della fine del colonialismo francese, mentre Meknes è in fiamme. Figlia di un marocchino e di una francese, impersona il volto del nuovo Marocco.

Il paese degli altri è il primo romanzo di una trilogia che, secondo quando detto dall’autrice, si concluderà con gli anni Duemila. È un bel libro, anche se non l’ho trovato bellissimo: Slimani ci presenta i personaggi principali e secondari con il contagocce e spesso all’apparire di un nuovo nome mi sono chiesta perché non lo avesse fatto partecipare prima agli eventi, invece di presentarlo all’improvviso. In alcune parti la narrazione mi è sembrata un po’ sconnessa e poco organica (ho trovato molto belle le parti in cui racconta della scuola di Aysha, peccato che poi abbandoni completamente quel filo narrativo per non riprenderlo più), ma immagino che ciò dipenda dal fatto che Il paese degli altri è solo il primo capitolo della trilogia. Alcuni capitoli sono più lenti e un po’ appesantiti dall’uso eccessivo dell’imperfetto, che rende rarefatte le scene; altri episodi sono più interessanti e in genere sono quelli con maggiore azione, dove la penna dell’autrice scivola meglio.

Però Leila Slimani sa inventare, è una brava affabulatrice e srotola le sue storie con perizia ricreando un universo credibile e piacevole in cui rifugiarsi e dimenticare il mondo esterno (e infatti mi ha ricordato la Isabel Allende de La casa degli spiriti in diversi punti). E poi mi piace che la stampa italiana la intervisti spesso: è una donna intelligente, e non ha paura di dire quello che pensa su razzismo, colonialismo, sessualità e femminismo.

(ps – proverò con i libri precedenti per approfondire meglio il suo stile!)

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