Una recensione di “Contro un mondo senza amore”, di Susan Abulhawa

Durante questo ultimo fine settimana al mare sono riuscita a finire l’ultimo romanzo di Susan Abulhawa Contro un mondo senza amore. Se lo state leggendo in questo momento, fermatevi qui perché la mia recensione conterrà diversi spoiler. Se volete partecipare al book club della Libreria Griot, che lo sta leggendo, fermatevi ugualmente qui; se invece lo avete già letto e volete partecipare al prossimo incontro del 13 settembre, potete continuare.

Contro un mondo senza amore è l’ultimo romanzo della scrittrice palestinese-statunitense Susan Abulhawa, già autrice del bestseller Ogni mattina a Jenin, che dieci anni fa era stato un caso editoriale tradotto in decine di lingue, che l’aveva proiettata sul palcoscenico della letteratura internazionale. Cinque anni dopo aveva pubblicato Nel blu del cielo e del mare, ambientato a Gaza, meno fortunato – a mio avviso – del precedente.

Questo sua ultima prova d’autrice ha come protagonista Nahr, una figlia di emigrati palestinesi nata in Kuwait, paese in cui si svolge il primo terzo del libro. Tutto il romanzo è narrato in prima persona e dal primo capitolo sappiamo già che, in seguito ad alcune vicende che verranno raccontate nel romanzo, Nahr finirà in una prigione israeliana ad altissima tecnologia, chiamata “Il Cubo”, come sorvegliata speciale. I capitoli in cui Nahr è nel Cubo cadenzano ogni nuova sezione del romanzo.

Ma all’inizio del libro, troviamo Nahr che muove i primi passi nel ricco emirato: nata ribelle, ama sfidare le convenzioni e le tradizioni, e da giovanissima si sposa con un altro palestinese, Mohammed. Il matrimonio si rivela fin da subito un disastro: il marito non la desidera e dopo un anno sparisce nel nulla, lasciandola nella triste condizione di donna rifiutata dal proprio uomo e dunque colpevole del fallimento del matrimonio. Già reietta, a causa della povertà della sua famiglia di origine, composta da madre vedova, fratello piccolo e nonna paterna bisbetica, Nahr viene introdotta nel mondo della prostituzione da una donna irachena naturalizzata kuwaitiana, forse il personaggio meglio riuscito di tutto il libro. Insieme ad altre giovani arabe radunate dall’irachena, frequenta un giro di uomini del Golfo danarosi, alcuni dei quali violenti e pericolosi. Nahr sopporta violenze, ricatti e vessazioni per il bene del fratello, che vuole studiare medicina all’estero.  Finchè una notte, durante un festino nel deserto dove le violenze erano al culmine, arriva la notizia improvvisa che Saddam Hussein ha invaso il Kuwait e tutto cambia. Ma tutto cambia ancora di più quando arrivano, poco dopo, gli americani con la prima guerra del Golfo. È il primo grande sconvolgimento del Medio Oriente contemporaneo. I palestinesi, prima integrati nella società kuwaitiana, vengono cacciati perché in Palestina Yasser Arafat aveva appoggiato le mire colonialiste del rais di Baghdad, e la famiglia di Nahr finisce in Giordania, esule per la seconda volta. Dopo essersi stabiliti ad Amman, grazie agli Accordi di Oslo, la madre e la nonna di Nahr riescono a tornare da “ospiti” in Palestina e al loro ritorno, incoraggiano Nahr a visitare la terra della propria famiglia per la prima volta. L’occasione è data dalle pratiche per il divorzio dal marito fuggiasco e quando Nahr arriva in Palestina, viene ospitata dalla famiglia del marito, ancora disperso. Lì, tra colline di ulivi e colazioni a base di mezzeh e pane caldo, Nahr conosce Bilal, il fratello del marito, un eroe della resistenza palestinese con cui intreccia una storia di amicizia che poi si tramuterà in un grande amore. Per amore di Bilal, Nahr collabora alla resistenza palestinese e insieme a lui, durante l’assedio di Sharon del 2002, mettono a segno una serie di micro-attacchi contro una colonia di ebrei insediatasi nei pressi della casa della suocera. Mentre il marito tenta di farla ritornare in Giordania per metterla in salvo a sua insaputa, Nahr viene arrestata dalle autorità israeliane. Verrà poi processata e condannata a 16 anni di isolamento durissimo nel Cubo, senza sapere se Bilal sia vivo o morto.

Quella di Nahr è una storia inventata ma ha delle basi di verità: nei ringraziamenti finali al libro, Susan Abulhawa cita infatti le donne che ha incontrato dentro e fuori le carceri, sulle cui memorie si è basata per costruire la trama di Contro un mondo senza amore.

Di quelle storie e di quelle memorie, però, Abulhawa non è stata in grado di registrare e consegnare ai lettori il grande dolore che celano e non le ha sapute raccontare con la giusta empatia. Dalla lettura di questo romanzo esce il profilo di una donna sì ribelle e anticonformista, ma assolutamente uguale a quella di tante eroine di questo tipo raccontate dalla letteratura di tutto il mondo. Non c’è approfondimento psicologico, rimane tutto piatto e superficiale. Rimane il turpiloquio che percorre inutilmente tutto il romanzo, e una storia scialba, senza spessore che, nella prima parte ambientata in Kuwait, somiglia ad un romanzo Harmony in salsa araba, poi si riprende un poco ma senza mai, davvero, decollare.

Certo, c’è molta storia della regione e della Palestina degli ultimi decenni e Abulhawa non è certo la prima, né sarà l’unica autrice a voler raccontare la Storia delle sofferenze di un popolo attraverso le storie dei suoi figli (una su tutte: la nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie ci è riuscita in modo magistrale con quel capolavoro che tutti dovrebbero leggere che è Metà di un sole giallo, il romanzo che racconta la guerra del Biafra nella Nigeria degli anni Sessanta attraverso le vite di una famiglia e della protagonista, Olanna).

In Contro un mondo senza amore c’è il racconto, poco conosciuto, dei palestinesi che vivevano in Kuwait, e di una parte della resistenza palestinese giovane e combattiva. Ci sono i nomi dei cibi della cucina palestinese, i nomi degli abiti delle donne palestinesi, i nomi dei cantanti arabi (tra cui Fairouz e Nancy Ajram), i nomi della flora del paesaggio palestinese: ci sono, insomma, tanti dettagli della società palestinese, come se la scrittrice avesse voluto mettere insieme tante informazioni, come se dietro questo libro ci fosse un intento forse un po’ didattico e tanto militante. Ma non si percepisce (o almeno io non l’ho percepito) l’emozione, non esce fuori il sentimento. E Nahr rimane una figura forzatamente ribelle, forzatamente anticonformista, dalle passioni forzatamente ardenti, quasi esotica. Un’occasione sprecata, per un’autrice che avevo molto amato durante la lettura di Ogni mattina a Jenin.

5 commenti

  1. Ho finito di leggerlo ieri e non potrei essere più d’accordo con questa recensione. All’inizio ero entusiasta, la scrittura é coinvolgente quindi speravo che la storia decollasse invece non è successo. Rimane un romanzo con delle belle intenzioni ma che poi rimane un po’ superficiale. Mi aspettavo una caratterizzazione del personaggio di Bilal o degli altri personaggi e invece manca. Anche la storia palestinese sembra quasi scritta da un punto di vista esterno, non da una persona che ha vissuto quegli eventi. L’unica emozione forse è la storia tra Bilal e Nahr che finalmente riescono a stare insieme nonostante le rispettive sofferenze e vivono questo grande amore, però manca il contorno emozionante, mi sembra che questa storia d’amore potrebbe essere tranquillamente essere inserita in un altro romanzo. Poi questa é la mia impressione a caldo, vorrei leggere il suo primo romanzo per vedere le differenze 😊

    • Grazie Clara. Stavo pensando che in dieci anni i miei gusti in fatto di libri sono cambiati molto, potrebbe darsi che rileggendolo oggi “Ogni mattina a Jenin” non mi piacerebbe, chissà

  2. È vero, a me é capitato di iniziare dei libri, lasciarli in sospeso per poi rileggerli anni dopo con entusiasmo, quindi dipende molto anche dalla persona. Comunque sono incuriosita, leggerò anche “Ogni mattina a Jenin” e ti farò sapere! 😊

  3. Ho letto il romanzo qualche settimana fa e sono arrivata alle stesse conclusioni. Mi ha molto delusa, avevo forse delle aspettative troppo alte. In certi punti sembrava un continuo ritornello del “come sono buoni i palestinesi, come sono cattivi tutti gli altri”. Una visione piatta della realtà, senza sfumature, molto superficiale. Uno spot pubblicitario pro Palestina, non una storia palpitante e coinvolgente che renda ai lettori l’idea di cosa significhi vivere quella realtà.

  4. Ho sentito fortemente il grande amore del popolo palestinese per la sua terra tormentata, che poi è lo stesso di Susan. In alcuni passaggi mi veniva da piangere. Utili e interessanti tutti i riferimenti che ne fanno un romanzo storico. Ottima la traduzione italiana.

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