Non c’è bisogno di conoscere la storia del Libano per vedere lo spettacolo teatrale di un regista libanese

Qualche giorno fa ho avuto il piacere di fare una breve chiacchierata al telefono con l’acclamato regista, attore e sceneggiatore libanese Rabih Mroué in occasione dell’allestimento del suo spettacolo “Riding on a Cloud” al Romaeuropa Festival.

Editoriaraba: Comincio col chiederti dello spettacolo che porti a Roma il 2 e 3 novembre all’Auditorium del MAXXI e che si chiama Riding on a Cloud e ha come sfondo la guerra civile libanese. Da dove nasce e da dove viene il titolo?

Rabih Mroué: Riding on a Cloud è una performance teatrale su e con mio fratello Yasser che nel 1987, durante la guerra, fu colpito dal proiettile di un cecchino e divenne afasico, vuol dire che perse l’uso del linguaggio: dimenticò come si parlava e scriveva e dovette imparare tutto da capo. Dopo alcuni anni di durissimo lavoro Yasser è diventato un poeta, e ha scritto diverse raccolte di poesia. La prima raccolta che ha pubblicato si chiama proprio Riding on a Cloud. Yasser sarà con me sul palco e interpreterà e stesso: ma ovviamente si tratta di uno spettacolo di teatro, che io ho scritto, e dunque si alterneranno momenti più autobiografici della sua storia, a momenti di finzione narrativa. È uno spettacolo sul senso del linguaggio, e sul ruolo della rappresentazione.

Sommerszene 2015 Rabih Mroue Riding in a cloud – courtesy del Romaeuropa Festival

EA: Possiamo forse dire che Riding on a Cloud è uno spettacolo sulla realtà vs la rappresentazione, e sulla memoria vs il presente: gli intellettuali libanesi da decenni lavorano per ricostruire i pezzi mancanti di una narrazione storica e sociale contestata da tutti, e in particolare dalla classe politica. Tu lavori nel teatro mentre io ho una grande passione per la letteratura, quindi vorrei chiederti qual è la differenze – secondo te – tra il ruolo del teatro e quello della letteratura nel ricostruire il puzzle della storia libanese recente, se c’è una differenza?

RM: Come prima cosa, se devo essere sincero io non cerco di riempire i buchi nella storia del Libano: quello che ho fatto è stato semplicemente prendere un evento, l’incidente subito da Yasser, e svilupparci una riflessione attorno per stimolare delle domande. Sulla differenza tra teatro e letteratura, io penso di fare del teatro-letteratura, perché sono affascinato dalla parola scritta e dalla lingua perchè ci da la capacità di creare delle immagini nelle nostre teste. Quando leggiamo un romanzo, le immagini che le parole scritte ci suscitano sono diverse in ogni lettore e lettrice: io nel mio teatro cerco di fare la stessa cosa, cerco di tenere quell’immaginazione vivida, con la differenze che io le immagino le mostro sul palcoscenico, ad esempio attraverso video-installazioni come in Riding on a Cloud.

EA: Hai pensato a come il pubblico italiano reagirà al tuo spettacolo? Cosa ti aspetti, o cosa vuoi che noi spettatrici e spettatori ci portiamo a casa dopo aver assistito alla tua performance?

RM: Riding on a Cloud è già andato in scena in molte città in tutto il mondo, anche a Torino. E ogni volta è lo stesso, non cambia mai; io personalmente non ho aspettative diverse a seconda del paese in cui lo allestiamo. Gli spettatori e le spettatrici che vengono sono innanzitutto delle persone, cittadini, individui: ognuno di loro ha la sua capacità di formulare il proprio pensiero. Il mio lavoro non fornisce risposte, non da conclusioni. Io non voglio insegnare cose al pubblico, ma condividere i miei dubbi con chi mi sta di fronte. Penso anche che non c’è poi molto bisogno di conoscere la storia del Libano per capire e avere un’opinione: il pubblico troverà il proprio modo di creare dei collegamenti con le storie personali di ciascuno. Questo è il significato della parola condivisione, per me. E questa condivisione è l’unica cosa che forse mi aspetto da chi viene ai miei spettacoli, da qualunque paese provenga.

EA: Trovo molto interessanti le cose che hai detto perché solitamente in Italia quando, ad esempio, nei cinema c’è un film arabo, le persone sono restie ad andare a vederlo perché dicono di non sapere molto della storia di quel paese da cui proviene, e forse sotto c’è una piccola dose di pregiudizio.

RM: Pensiamo ai film di Fellini, o Pasolini, o di altri cineasti italiani: ovviamente i loro film parlano della storia d’Italia e noi che li abbiamo guardati dal Libano, alcune cose non le abbiamo capite. Ci saranno state delle sfumature che avremo perso nel loro significato originale, ma questo non significa in alcun modo che non siamo stati in grado di capirli e apprezzarli. È per questo che sono dei grandi artisti: sono stati in grado di portare sullo schermo qualcosa di molto personale che però è stata capita e apprezzata a livello internazionale. Senza che fosse necessario sapere le date o i dettagli della storia italiana.

EA: Quando hai iniziato a fare teatro in Libano negli anni ’90 sei stato da subito considerato un innovatore e uno dei pilastri del teatro libanese. Com’è la situazione del teatro in Libano oggi?

RM: Sono dieci anni che ho lasciato il Libano, e la situazione è peggiorata dal punto di vista della produzione e del sostegno economico necessari per fare teatro. Il nostro governo non fa niente per aiutare la cultura libanese, e film e spettacoli vengono ancora censurati. Ma, nonostante tutto, artisti, registi di teatro e cinema, e tutti gli e le intellettuali libanesi stanno facendo un lavoro eccellente.

Courtesy del Romaeuropa Festival

EA: Oggi vivi a Berlino: com’è cambiato il tuo modo di lavorare da quando non vivi più a Beirut?

RM: È cambiato in due modi: prima la maggior parte delle cose che facevo riguardavano il Libano, ora mi occupo di argomenti più ampi e giro molto di più il mondo. E poi in dieci anni si cambia, e la vita si mette in mezzo come abbiamo visto con la pandemia: dobbiamo ancora capire che tipo di cambiamento questa esperienza ha introiettato in noi, come ha cambiato l’arte e il modo in cui usiamo lo spazio pubblico, come ci approcciamo alle tecnologie che ci hanno accompagnato in questi anni – tra videocall e conferenze online. Penso che la gente oggi voglia dimenticarsi del COVID e mi interessa approfondire di più questo aspetto e cercare di capire perché c’è necessità che cali l’oblio da parte di qualcuno, su questo periodo così complicato delle nostre esistenze collettive.

EA: Ho un’ultima domanda (facile): nel 1991 hai adattato insieme a tua moglie Lina Saneh il romanzo Il viaggio del piccolo Gandhi, dello scrittore libanese Elias Khoury – che quindi immagini tu legga e apprezzi. Che altri autori e autrici leggi o ami particolarmente? Te lo chiedo perché, come ti ho detto all’inizio, questo è un blog letterario e quindi mi interessa sempre capire i gusti letterari delle persone che intervisto.

RM: Ohhh, che domanda difficile! È difficile dirne solo un paio. Ne menzionerò solo uno, libanese, scomparso l’anno scorso..

EA: Jabbour!

RM: Sì, Jabbour Douaihy. Ho letto e amato quasi tutti i suoi romanzi, ma l’ultimo – uscito postumo – mi è rimasto particolarmente nel cuore.

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