Arrivederci Jabbour Douaihy (1949-2021)

Il 23 luglio si è spento lo scrittore e accademico libanese Jabbour Douaihy. Era malato da qualche tempo e se c’è andato via, raggiunto a poche ore di distanza dal suo amico di una vita, il critico letterario Fares Sassine. Erano anime gemelle, Jabbour e Fares. È impossibile pensare a uno senza ricordare anche l’altro. Due fari della vita intellettuale libanese che hanno già lasciato un vuoto immenso in Libano e nelle vite di chi li ha conosciuti.

Jabbour Douaihy era nato nel 1949 a Zgharta, nel nord del Libano. Docente di letteratura francese all’Università libanese, editorialista di L’Orient Le Jour, aveva esordito con la scrittura nel 1995 con I’tidal al-Kharif, tradotto in inglese e francese. In italiano è l’editore Feltrinelli ad averlo pubblicato, con la traduzione dall’arabo di Elisabetta Bartuli (grazie alla quale l’ho conosciuto anche di persona): Pioggia di giugno (2010), romanzo finalista all’IPAF nel 2008 e San Giorgio guardava altrove (2012), finalista allo stesso premio nel 2012. Era venuto diverse volte in Italia, dove aveva partecipato a festival e incontri letterari a Torino, Mantova e Lucera.

(fonte: Facebook)

Pioggia di giugno, pubblicato nel 2008 dalla casa editrice Dar al-Nahar di Beirut, è ambientato nel villaggio di Barqa, tra le montagne libanesi, nel 1957: la vicenda trae spunto da un massacro avvenuto durante un funerale, che porta allo scoppio di una faida tra due clan rivali entrambi cristiani. Questo romanzo è stato il più difficile che Douaihy abbia mai scritto: “E’ un libro disarticolato, pieno di discorsi, personaggi, punti di vista. Mentre la scrivevo, sentivo che questa storia mi sfuggiva da tutte le parti e mi chiedevo come sarei riuscita a rimetterla insieme, pezzo dopo pezzo. Ma più mi sfuggiva, più ero preso dalla perversione di renderla ancora più eclettica”.

A differenza di Pioggia di giugno, San Giorgio guardava altrove è ambientato a Beirut e deve il suo titolo nella versione italiana al santo patrono di Beirut, San Giorgio, che però nel libro si è distratto e ha lasciato che la tragedia si compisse. Nizam, il protagonista, è un giovane nato in una famiglia sunnita con problemi economici che viene allevato da una ricca famiglia cristiano-maronita che lo tratta come un figlio. La tragedia di Nizam si compie nel momento in cui scoppia la guerra civile libanese (1975-1990), che lo trova intrappolato in una doppia identità confessionale che ne determinerà la rovina. Nonostante sia stato ampliamente interpretato come un’allegoria del Libano e della schizofrenia di questo Paese che può contare 17 diverse confessioni religiose al suo interno, il personaggio di Nizam è ispirato ad una persona realmente esistita, un parente alla lontana di Douaihy: “Dopo la sua morte mi sono imbattuto per caso nel suo annuncio mortuario, attaccato ad un muro. E mi sono accorto che in realtà erano due gli annunci, uno cristiano e l’altro musulmano. Ho deciso quindi che ne avrei tirato fuori una storia. Ma scrivere questo romanzo non è stato facile, dovevo soprattutto stare attento a non cadere nella trappola dell’ideologia”.

San Giorgio guardava altrove è davvero uno dei romanzi arabi più belli che abbia mai letto, quello che più ho consigliato a chiunque mi chiedesse da dove cominciare a leggere la letteratura araba e quella libanese, e che continuo a consigliare. È un romanzo animato da una tenerezza e un’umanità sconfinate, in cui è facile ritrovarsi.

Perfettamente bilingue arabo e francese, Jabbour Douaihy era un uomo estremamente colto, animato da una raffinatissima eleganza dello spirito e della parola. Amava vivere nel suo nord del Libano e scendere regolarmente a Beirut, dove incontrava gli amici di una vita con cui si intratteneva in interminabili pranzi e caffè a discutere di cultura e politica libanese. E lì, in uno dei suoi caffè preferiti, Urbanista ad Ashrafieh, lo avevo incontrato più di una volta, sempre accompagnato dal suo amico Fares Sassine. Non posso fare a meno di ricordare quella mattina in cui, durante un pranzo, discutevano di un grande intellettuale italiano che io non avevo saputo riconoscere. Fares Sassine, in particolare, era un grande amante del cinema italiano e citava a memoria battute di film che neanche io avevo mai visto. Mi ricordo che in quell’occasione mi ero sentita piccolissima: com’era possibile che non conoscessi l’intellettuale di cui i due stavano parlando, evidentemente per mettermi a mio agio? E mi sono venute in mente tutte quelle volte in cui in Italia ero stata costretta e sentire o leggere che nei paesi arabi non c’è cultura, che tutti gli arabi erano una massa indistinta di persone incolte, arrabbiate e pericolose.

Oltre a Beirut, avevo incontrato Jabbour anche ad Abu Dhabi, durante una delle Fiere del libro e in occasione della premiazione dell’IPAF nel 2014, in cui mi aveva detto:

“I libanesi hanno passato momenti terribili durante la guerra civile ed è facile immaginare che gli scrittori li abbiano in qualche modo interpretati con l’uso dell’assurdo e dell’ironia. Questo stato di conflittualità latente è diventato un po’ il nostro modo di vivere. È il nostro modo di sopravvivere. Perchè il Libano è un paese in divenire, da costruire. Quasi tutte le mattine”.

Nei prossimi mesi verrà pubblicato in italiano un suo altro romanzo ambientato a Beirut, a cui teneva moltissimo. Lo aveva dedicato al suo amico Fares.

Arrivederci caro Jabbour, mancherai molto.

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