Migrazioni e identità in conflitto: “Abbracciarsi sul ponte di Brooklyn” di Ezzedine C. Fishere

Di recente ho visto la prima (e finora unica) stagione di Modern Love, la serie di Amazon Prime ispirata all’omonima rubrica apparsa su The New York Times e poi riadattata per lo schermo. Si tratta di otto puntate ambientate a New York (e quindi: Manhattan principalmente, lucine, Central Park, musiche jazz romantiche, panorami sul fiume Hudson, gente che beve caffè passeggiando per strada, le stradine con le casine tutte ugualmente perfette come in Sex and the City) che raccontano altrettante storie con a tema l’amore. Gli attori sono sempre diversi e i personaggi che interpretano esprimono otto modi diversi di vivere l’amore: la nascita di un bambino, una coppia omosessuale, l’amore a prima vista, una relazione da anziani e così via. È una serie molto bella, eccezion fatta per le prime due puntate che sono incredibilmente banali. Nelle altre si piange molto, si sogna un po’, ci si illude un po’, anche.

Ho visto Modern Love mentre leggevo il romanzo Abbracciarsi sul ponte di Brooklyn, dello scrittore egiziano Ezzedine Choukry Fishere, appena pubblicato da Francesco Brioschi Editore (trad. dall’arabo di Elisabetta Bartuli).

Questo romanzo, apparso in arabo nel 2011 e arrivato tra i finalisti del Premio internazionale per la Letteratura araba l’anno seguente, è ambientato principalmente tra New York e Il Cairo. La trama è scandita da otto storie di altrettanti personaggi legati tra loro da legami di parentela, amicizia, amore, che si devono ritrovare una sera a New York a casa del professor Darwish Bashir (un accademico egiziano, irascibile e autoritario, trapiantato negli Stati Uniti) per festeggiare i 21 di sua nipote Salma, che però non arriverà mai per la cena, come tutti gli altri personaggi. La cena fornisce la cornice narrativa all’interno della quale gli otto personaggi si raccontano durante gli otto capitoli, ognuno dedicato ad uno di loro.

In ciascun capitolo, ogni protagonista (più uomini che donne, una scelta che ammetto mi ha un po’ infastidita, per fortuna ammorbidita dalla traduzione dolce e fluida di Elisabetta Bartuli) ripercorre con la mente, in un soliloquio immaginario quasi senza dialoghi, la propria vita e le scelte che l’hanno portato a prendere un treno o un aereo e raggiungere il professor Darwish. Ciò che li accomuna è quindi la relazione con Darwish ma anche la loro origine: sono infatti tutti immigrati arabo-americani principalmente di origine egiziana.

C’è un medico, padre di Salma, che dall’Egitto si è trasferito a New York, ha un’innamorata olandese e un amore intellettuale per Edward Said. Il professor Darwish, accademico di fama internazionale trasferitosi dall’Egitto negli Stati Uniti, che regala Storia dei popoli arabi di Albert Hourani a tutte le sue donne. Un’avvocatessa nata in Egitto ma che ha studiato negli USA e che si occupa di diritti delle minoranze. Un contabile nato negli States da genitori egiziani. Dawud, imam palestinese-libanese, ex combattente del campo profughi di Sabra e Shatila. E poi c’è la giovane Salma, cresciuta in Egitto, che il nonno vorrebbe convincere a studiare negli Stati Uniti ma che è ancora combattuta sul da farsi.

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Ogni personaggio si muove su una linea rossa ben identificabile: quella dell’integrazione – o mancata tale – degli immigrati di origine araba negli Stati Uniti. Un tema, questo, particolarmente sensibile negli USA post undici settembre e al cui riguardo Choukri Fishere dimostra di non avere paura di rischiare. Il capitolo dedicato all’imam Dawud, infatti, risulta particolarmente problematico nel momento in cui il protagonista ricorda che quando le Torri gemelle erano state attaccate aveva provato sentimenti di gioia:

La belva sono io. Io che per l’attacco ho esultato, che ho provato un senso di rivincita travolgente […] Avrei voluto che morissero in settantacinquemila, tutti quelli che erano lì.

Leggere quelle parole mi ha disturbato e ho iniziato a pensare che forse non avevo mai davvero immaginato che qualcuno (arabo o non arabo) potesse aver gioito dell’attacco. Di sicuro c’era stato, ma non mi ci ero mai soffermata. E poi ho pensato anche che non avevo mai letto niente del genere prima d’ora. E sì che di romanzi arabi un po’ ne ho letti, anche con personaggi jihadisti, ma nessun autore arabo a memoria aveva mai infranto il tabù dell’11/9 (tutti i dirottatori erano arabi, la maggioranza dei quali proveniva dall’Arabia Saudita).

Ma Choukri Fishere fa un passo ulteriore per spiegarci il perché di una posizione così critica e ci fa entrare nella logica di Dawud, per mostrarci i bianchi e i neri di questo personaggio. Prima di arrivare negli USA, Dawud era un palestinese residente in Libano la cui famiglia era stata massacrata nell’eccidio di Sabra e Shatila. Negli anni aveva covato un forte risentimento per il cosiddetto “double standard” dell’Occidente, che chiama vittime i morti occidentali sul proprio suolo, e danni collaterali i morti arabi civili durante raid e bombardamenti nelle varie guerre per esportare la democrazia in Medio Oriente.

Il tema è talmente forte che l’autore, in un’intervista con Marcia Qualey su Bookriot, si chiede:

I lettori americani riusciranno a superare le loro posizioni e capire la logica di chi li odia? O si indigneranno e lo considereranno un tentativo di giustificare l’odio? Vedremo.

E ancora, ha detto:

Ho voluto descrivere il mondo in cui viviamo: siamo onesti, con quante persone piacevoli abbiamo a che fare durante la nostra vita e quante sono invece quelle insopportabili? Quante persone incontrate alle quali vorreste tirare un pugno in faccia o, se non siete portati alla violenza, far sparire premendo un bottone? Nelle mie storie voglio raccontare le nostre vite. Le persone antipatiche sono più interessanti: perché sono tanto insopportabili o tanto noiose? Sono nate così o è accaduto loro qualcosa che le ha fatte cambiare? In altre parole, qual è la loro storia? Io voglio sentire la loro versione, e farla sentire agli altri.

A parte Dawud, ognuno dei personaggi è problematico a modo suo, perché evidentemente problematica è la relazione tra il proprio paese di origine e quello di arrivo. In questo, Abbracciarsi sul ponte di Brooklyn è un libro diverso dagli altri che hanno come tema l’incontro/scontro tra cultura occidentale e arabo-musulmana. Qui viene problematizzato (nel senso di indagato, scandagliato, analizzato nel profondo) lo scontro, ovvero le difficoltà, le disillusioni, le frustrazioni che i personaggi hanno sopportato per adattarsi alla vita americana. Siamo pronti – in quanto lettori – a sostenere questo sguardo e a capire le ragioni delle loro scelte e dei loro sentimenti, spesso ambivalenti e controversi?

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E. C. Fishere

Come ha affermato lo scrittore (che evidentemente non ha timore di risultare controverso), questo non è un libro orientalista: qui non c’è uno sguardo occidentale sul mondo arabo, ma uno sguardo arabo sul mondo arabo, per di più uno sguardo accorto – C. Fishere infatti vive e insegna negli USA, al Dartmouth College (università della Ivy League).

La fine del romanzo è aperta: tutte le storie sembrano convergere alla Penn Station, New York, allo scoccare della mezzanotte, sul personaggio della giovane Salma, la cui vita è in bilico come quella di chi decide ogni giorno di lasciare il proprio paese, il proprio bagaglio culturale e partire per raggiungere la propria personale forma di felicità. Mettendo in conto, però, che potrebbe anche non trovarla.

A differenza di Modern Love, in ognuna delle otto storie che compongono Abbracciarsi sul ponte di Brooklyn non si sogna molto, né ci si illude. Ma si riflette, si sospende il giudizio, ci si interroga sulle proprie convinzioni, stereotipi, solidità del pensiero.


L’immagine di copertina e la fotografia dell’autore sono prese dalla pagina Facebook dell’editore italiano.

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