“L’ultimo melograno” di Bachtyar Ali: le vite spezzate dell’Iraq e la salvezza dell’umanità

[Disclaimer: in questo post trovate diverse anticipazioni sul romanzo. Attenzione quindi se ancora non lo avete letto]

Ieri sera stavo leggendo questo bellissimo pezzo di Khalifa Abo Khraisse su Internazionale, in cui l’autore parla dell’importanza di riconoscerci tutti umani, perché solo così possiamo provare rispetto e umanità gli uni verso gli altri e non scivolare verso l’abisso, e ho trovato lo spunto per parlarvi di un libro che ho finito da poco.

Si tratta del romanzo L’ultimo melograno, dello scrittore curdo iracheno-tedesco Bachtyar Ali (Chiarelettere 2018, trad. dal tedesco di Margherita Diotalevi). È stata una lunghissima e dolorosa lettura, inframmezzata da altre, diverse. Mi succede spesso, sono una lettrice un po’ confusa a volte, quando il libro principale che sto leggendo non mi prende da subito.

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A dire il vero L’ultimo melograno all’inizio mi aveva completamente coinvolta: le prime pagine sono estremamente poetiche e immergono subito il lettore in una storia fiabesca, ai confini con la realtà.

C’è quest’uomo, tenerissimo e forte, che da 21 anni è rinchiuso in un carcere nel bel mezzo del deserto. Attorno a lui ci sono solo granelli di sabbia e un cielo sconfinato. Quest’uomo, che si chiama Muzafari Subhdam, prima di essere incarcerato era un combattente curdo, un rivoluzionario le cui gesta avevano ispirato tanti dopo di lui nella rivolta curda contro Saddam Hussein.

In quel carcere fatto di sabbia e silenzio, raggiunge un livello di consapevolezza e pace interiore invidiabile: “Ero riuscito a pensare con serenità all’uomo che ero stato perché era come se fossi morto. Per gli altri era così, il mondo intero mi aveva dimenticato. Il pensiero di essere morto mentre gli altri proseguono la propria vita, ciascuno per la propria strada, ti infonde un senso di pace infinita. Il fatto che nessuno aspetti il tuo ritorno ti fa sentire in paradiso”.

Poi miracolosamente esce e si mette alla ricerca del figlio mai conosciuto, Seriasi Subhdam, l’unico essere umano che non aveva dimenticato in quella prigione di sabbia. La ricerca del figlio si rivela più complicata del previsto perché di Seriasi Subhdam non ce ne sono uno solo, bensì tre e Muzafari Subhdam non sa quale sia il suo “vero” figlio. Si sa solo che tutti e tre sono accomunati da un oggetto misterioso: una melagrana di vetro, e che tutti hanno subito dolori e sofferenze indicibili durante la rivolta e subito dopo.

Comincia così un viaggio nelle ferite dell’Iraq, ma raccontato attraverso il genere fantastico: Muzafari e il romanzo si muovono infatti tra castelli incantati, alberi profetici, uomini dai cuori di vetro e bianche sorelle magiche.

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L’autore, Bachtyar Ali

Scopriamo quindi che i tre Seriasi – un filosofo venditore di strada, un militante Peshmerga, un povero ustionato – sono i figli perduti di un’intera generazione, di un’intera comunità, di un intero Paese – l’Iraq –  che negli ultimi 30 anni di guerre e tragedie si è perso i propri figli per strada, senza dar loro speranza.

È proprio dopo aver saputo di aver perso i primi due figli, che Muzafari decide di salvare dal proprio infelice destino il terzo Seriasi, un povero ustionato la cui faccia è stata completamente cancellata dall’esplosione della bomba che lo ha quasi ucciso.

Il terzo Seriasi è il più indifeso di tutti, non capisce nulla del mondo circostante ed è bisognoso di un padre come Muzafari di un figlio. Si trova ospite di una clinica in cui sono ospitati i “bambini carbone”: giovani uomini dalle vite spezzate, ustionati, mutilati dalle armi chimiche e dalle guerre. Si trovano tutti lì in un carnaio che nessuno al di fuori di quelle mura vuole vedere.

È di fronte a quell’umanità dolente e bisognosa d’amore, che Muzafari Subhdam ha un moto di rabbia e dolore insieme, e grida a quei piccoli orfani abbandonati:

“Andate in strada e fatevi vedere. Chi non ha ancora sentito la vostra storia deve posare gli occhi su di voi […] Venite fuori, fatevi vedere. Mostratevi agli uomini, agli alberi, al vento e alla pioggia. Tenetevi per mano e uscite da quella clinica!”.

Questo passaggio, che si trova sul finire del libro, mi è ritornato in mente poco fa mentre leggevo l’articolo che vi ho citato a inizio post. In entrambi i brani, gli autori ci ricordano che siamo tutti esseri umani e che è importante riconoscersi nelle vite degli altri. Anche quelle lontane, anche quelle miserevoli e abbandonate. Che un lampo di umanità ci deve balenare negli occhi quando guardiamo gli altri distrattamente, mentre camminiamo per strada, mentre guardiamo un telegiornale e ascoltiamo o vediamo le vite degli altri. Da questo riconoscimento dell’umanità dell’altro, discende la vicinanza, l’empatia, la fratellanza, il sostegno reciproco. In ultima analisi, la nostra salvezza come uomini.

(Parlando ad un livello più letterario, ho trovato alcuni difetti nel romanzo: la parte centrale mi è sembrata eccessivamente prolissa, alcuni passaggi troppo inclini al sentimentalismo e al pietismo. Inutilmente, inoltre: la storia in sé è dolorosa, benchè l’autore dia un respiro di salvezza finale che alleggerisce tutto il romanzo. Inoltre, ultimo appunto ma non per minore importanza: non c’è un corretto gender balance tra i personaggi. I protagonisti uomini sono tutti forti, vigorosi, personaggi a tutto tondo con pensieri, azioni e riflessioni autonome. Le pochissime donne del romanzo sono più delle comparse: mogli, madri, sorelle, che nella maggior parte dei casi sono già morte. Le uniche due protagoniste, le bianche sorelle, sono creature quasi magiche, impalpabili, che non hanno un’identità autonoma ma si presentano sempre in due e assomigliano più a dei folletti fantastici che a delle donne vere.

Di tutto questo spero di poter parlare con l’autore, quando a settembre sarà ospite a Roma della Libreria Griot).

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