Contro il neo-orientalismo

Il mese scorso, Amal Bouchareb – scrittrice algerina residente in Italia – ha pubblicato sul quotidiano panarabo al-Arabi al-Jadid una recensione di Arabpop, inserendo il nostro libro all’interno di un discorso più ampio che ha a che fare con il modo con cui l’Italia, l’Europa e l’Occidente a volte tendono a vedere il mondo arabo e che va sotto il nome di “Orientalismo”. La pubblico qui con la bella traduzione dall’arabo di Silvia Moresi, che ringrazio per la disponibilità, non tanto per fare pubblicità al libro, quanto perché ho trovato interessante e stimolante il punto di vista di una intellettuale algerina che racconta il mondo arabo visto dall’Italia. Buona lettura!


Contro il neo-orientalismo

di Amal Bouchareb (trad. dall’arabo di Silvia Moresi); pubblicato su al-Arabi al-Jadid il 14 giugno 2020

Sono passati solo pochi giorni dalla messa in onda, sul canale France 5,[1] del documentario Algérie mon amour (al-Jaza’ir habibati) che ha sollevato enormi polemiche in Algeria a causa della prospettiva colonialista con cui il “vecchio padrone” ha presentato la rivolta (hirak) algerina, come ha affermato il giornalista italiano Francesco Battistini in un articolo pubblicato il primo giugno sul Corriere della Sera.  Due ragazzi che hanno preso parte al documentario hanno inoltre affermato di “essere stati ingannati” dai produttori: uno ha dichiarato che la sua testimonianza è stata modificata e utilizzata per sostenere una visione ideologica che non gli appartiene, l’altro si è detto molto dispiaciuto perché, senza il suo consenso, nel documentario è stata violata la sua vita privata.

Il blogger algerino Abderrazak Nait Seghir ha paragonato il documentario ai “cinegiornali sulle imprese coloniali in Africa dell’inizio del XX secolo, che i francesi proiettavano nelle sale cinematografiche e che erano molto simili a filmini di una visita allo zoo”, e una commentatrice ha affermato che questo episodio “ricorda perfettamente gli avvenimenti del 1930, quando la Francia, per celebrare i cento anni della colonizzazione [dell’Algeria], portò a Parigi uomini, donne e bambini di colore che furono messi in delle tende, mostrati ai turisti, e costretti a fingere di essere cannibali”.

Sebbene questo lavoro non rispecchi totalmente il pensiero europeo sulla natura delle rivoluzioni arabe degli ultimi anni, è però questa l’idea proposta da documentari, libri e film, che raccolgono tutti i classici stereotipi dell’esotismo presenti nell’immaginario occidentale sull’ “arabo”, e che raccontano una “verità” fatta di popoli primitivi e repressi che non rispettano le donne, e sono dediti al sesso e all’alcol.

Tuttavia, questo episodio ha il merito di aver aperto una discussione riguardo uno dei più importanti strumenti dell’orientalismo, attraverso il quale ci si appropria della vita privata dei cittadini dei paesi del sud del mondo, le cui immagini vengono mostrate senza alcun rispetto per la loro dignità, diventando, in Occidente, rappresentazioni iconiche di un “sud retrogrado” e di un “barbaro Oriente”: bambini avvolti nella polvere che guardano con tristezza la telecamera in mezzo alle macerie della guerra, o un bambino nero che piange disperato mentre un nugolo di mosche si posa sul suo viso.

Tutto ciò accade nonostante le leggi europee e americane consentano ai media di mostrare immagini di minori “bianchi” solo coprendo i loro volti. Persino in ambito scolastico non è permesso alle istituzioni pubblicare immagini di minori senza l’assenso dei genitori.

Il consenso di poter pubblicare in tutto il mondo le pietose immagini dei loro bambini non viene però chiesto alle madri dei paesi del sud del mondo. Loro stesse non vengono risparmiate e vengono ritratte durante il viaggio d’emigrazione con i loro fagotti colorati sulla schiena e i figli spettinati e scalzi appoggiati sui fianchi.

Queste rappresentazioni sembrano essere forme di un nuovo orientalismo, che mostrano però la stessa ossessione fetish sull’Oriente di quando le donne nude negli hammam erano i sogni erotici dell’uomo bianco. Evidenziando un certo sviluppo del gusto nell’epoca postmoderna, oggi il centro dell’immaginario del nuovo orientalista è diventata la donna orientale immersa nel fango e nelle macerie delle guerre.

“La guerra è bella”: queste parole dello scrittore americano David Shields sono state provocatoriamente ricordate dalla ricercatrice Donatella Della Ratta in un suo articolo pubblicato sul sito SyriaUntold il 14 maggio scorso, in cui ha criticato il documentario siriano Alla mia piccola Sama. Della Ratta ha esplicitamente affermato che “le donne e la maternità sono diventate gli strumenti nelle mani del neo-orientalismo digitale e di forme più sofisticate di sfruttamento coloniale”. Nonostante dopo la proiezione romana [al MedFilm Fetsival] il documentario abbia ricevuto diversi consensi e ottenuto un enorme successo di “lacrime” da parte del pubblico italiano, che ha empatizzato con la storia vera della protagonista, questo lavoro ha lasciato fredda la ricercatrice italiana proprio a causa del background orientalista, come lei stessa ha affermato.

Sullo stesso argomento, cioè sulle storie vere e “strappalacrime” presentate dal nuovo mercato orientalista in Europa, in una intervista intitolata “Scrivo per decolonizzare la letteratura italiana”, e pubblicata sulla rivista “Left” il 24 maggio scorso, la scrittrice italo-somala Igiaba Scego ha affermato che “Ora il rischio è essere fagocitati da un mercato che da noi vorrebbe solo storie di vita, meglio se strappalacrime. Ma è lì che deve intervenire il nostro essere rifiutando il diktat facile della testimonianza”.

E del mercato delle testimonianze delle “(facili) emozioni, come l’orientalismo occidentale si aspetterebbe”, ha parlato la ricercatrice italiana Anna Serlenga nel suo capitolo dedicato al cinema, all’interno del libro Arabpop. Arte e Letteratura in rivolta dai Paesi arabi (Mimesis, 2020). Serlenga ha messo evidenza il consueto atteggiamento che, in Occidente, strizza l’occhio a quegli artisti e scrittori arabi che si occupano di casi umani, incoraggiandoli a parlare di guerra, sofferenza e dolore: “questo atteggiamento non aiuta la causa. Quel che aiuta è pensare, e creare quanto più possibile una distanza per vedere meglio”. Queste parole dell’attore libanese Rabih Mrouè, riportate nel capitolo dalla ricercatrice italiana, sottolineano la superficialità con cui l’Occidente si è avvicinato alle espressioni artistiche arabe.

Sempre all’interno di Arabpop, Fernanda Fischione ha seguito la stessa direzione “facendo ascoltare” in Italia il punto di vista arabo sul nuovo orientalismo. Nel suo capitolo dedicato alla musica, ha infatti tradotto il brano E-stichrak (Orientalismo) del cantante libanese Mazen el-Sayyd, conosciuto come El Rass, che, in un’intervista con la stessa autrice, ha affermato: “Quando eravamo a Parigi […] alla fine della serata c’era un’orientalista ubriaca che si è messa a gridare ‘il popolo vuole libertà d’espressione’: per quanto ci riguarda, in quelle parole c’è il sangue di molte persone, non è una cosa che tu puoi usare per viverti il tuo feticismo personale”.

Così, in un periodo in cui, in Europa e in Italia, sembra esserci un forte revival orientalista, arriva Arabpop (a cura di Chiara Comito e Silvia Moresi, con gli interventi di Catherine Cornet, Fernanda Fischione, Anna Gabai, Luce Lacquaniti, Anna Serlenga e Olga Solombrino) a far conoscere l’opinione degli artisti arabi sulla semplificazione caricaturale e gli abusi volgari che mortificano la cultura araba in Occidente.

Le autrici hanno adottato un chiaro approccio anti-orientalista, dimostrando la capacità di saper trasmettere un’immagine panoramica del mondo arabo e della sua scena artistica e letteraria (narrativa, poesia, arti visive, fumetto, musica, teatro, street art, cinema), nei limiti del proprio gusto personale, e consapevoli delle esigenze del mercato europeo, che tende a concentrarsi solo su alcuni argomenti, come ha affermato Olga Solombrino nel suo capitolo dedicato al cinema. In particolare, sul tema del femminismo il lettore occidentale ha sempre sollecitato il mercato a cercare finanziatori per i lavori artistici, per le organizzazioni nazionali o ONG straniere che si occupano di questo argomento. Nei capitoli, le autrici si soffermano infatti su alcune questioni: il femminismo di Stato nei paesi arabi, il femminismo coloniale e il femminismo delle ONG straniere, che vengono spesso confusi con i movimenti femministi locali e spontanei, in particolar modo nel contesto palestinese.

Questi argomenti, di solito, non vengono trattati con oggettività negli ambienti intellettuali italiani che, quando affrontano questioni legate al mondo arabo, tendono ad avere un atteggiamento ideologico grossolano e superficiale.

Arabpop, lontano dal mercato delle opere strappalacrime del nuovo orientalismo, ha così inaugurato quest’anno in Italia la stagione delle pubblicazioni di critica e traduzione dedicate al mondo arabo con un lavoro serio e un approccio responsabile. Questo volume apre spunti di riflessione che il lettore italiano non trova quasi mai nella letteratura né nell’arte a causa dell’antico rapporto dell’Occidente con il sud del mondo basato solo su un bisogno di “svago antropologico”.

Se in precedenza a questi popoli veniva chiesto di far divertire l’uomo bianco con spettacoli comici (l’immagine della ragazza di colore esposta nello “zoo umano” in Belgio risale solo a sessant’anni fa), oggi l’intrattenimento dell’uomo bianco si basa su materiali “reali” e tragici – in accordo con la moda della “televisione della realtà” dell’era postmoderna -, ed esige l’utilizzo di immagini di bambini, figli di popoli “altri”. Le vite private di uomini e donne vengono attraversate da film e documentari a buon mercato, e la letteratura sminuita nel suo valore artistico per diventare mera “testimonianza”.

[1] Il documentario è andato in onda il 26/05/2020.

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