Una recensione di “Notturno”, di Gianfranco Rosi

Martedì sera sono andata a vedere in anteprima Notturno, il nuovo film del premiato regista italiano Gianfranco Rosi, già autore di opere importanti e apprezzate come Sagro Gra e Fuocoammare. Non avevo visto nessuno dei precedenti documentari, ma mi aveva ovviamente interessata il tema del film.

Notturno (“un film di luce sul buio delle guerre”) è stato girato nel corso degli ultimi tre anni in Medio Oriente, tra Libano, Siria, Kurdistan e Iraq con l’obiettivo di dare voce e spazio alle storie delle persone normali, le cui vite al confine tra questi territori sono state sconvolte dalle guerre, dal terrorismo, dalla repressione politica e dalle ingerenze straniere. Il regista ha vissuto tre anni in quei territori, calandosi interamente nel soggetto che voleva raccontare: un’esperienza che lo ha profondamente sconvolto e cambiato, come ha detto in diverse interviste alla stampa italiana.

Non c’è una trama in questo documentario, che si sviluppa attraverso una serie di sequenze ambientate in luoghi diversi che si alternano: alcune brevissime, altre più lunghe. Alcune hanno dei protagonisti, altre invece sono quasi dei fermo-immagine in cui la cinepresa inquadra un paesaggio. I dialoghi sono praticamente assenti e il film si dispiega come un lungo e lento alternarsi di episodi, rumori di sottofondo, chiaroscuri, brevi conversazioni.

Il concetto di confine è centrale nel film, al punto che all’inizio sullo schermo appare una sequenza scritta in cui si spiega che con l’accordo Sykes-Picot del 1916, quando le potenze europee ridisegnarono a tavolino i confini del Medio Oriente – fino ad allora provincia dell’Impero Ottomano – cominciarono i mali della regione.

L’intento principale di Rosi è stato quindi quello indagare le vite di chi vive tra quei confini tracciati da mani straniere, che hanno miscelato lingue, religioni e culture diverse che un tempo convivevano. Ed ecco perché, almeno nella proiezione dedicata alla stampa (e in realtà nelle iniziali intenzioni del regista), non compaiono mai i nomi dei luoghi in cui sono ambientate le sequenze, neanche quelle più cariche di emotività: un ospedale psichiatrico dove sono curate le persone affette da PTSD, un orfanotrofio che ospita i bambini yazidi rimasti orfani dopo il genocidio dello Stato Islamico, un nascondiglio delle combattenti Peshmerga, il lamento di una madre che piange per la morte di un giovane attivista/combattente, la famiglia di un ragazzino costretto a lavorare per mantenere la mamma e gli otto fratellini, un carcere dove sono rinchiusi i terroristi dello Stato Islamico, una madre che ascolta i messaggi vocali della figlia rapita dai terroristi dell’Isis.

Ha detto Rosi a Venezia: “Nel film volevo annullare la geografia, le separazioni, i confini e dare importanza alle storie universali dei personaggi. Ero alla ricerca della dimensione umana.”

Ma proprio in questo annullamento dei confini geografici sta uno dei primi peccati del film: abbiamo tutti versato fiumi d’inchiostro negli anni per ribadire l’importanza della precisione quando si racconta il Medio Oriente in Italia, per evitare la confusione e le mistificazioni, per evitare che quando si parla di questa regione del mondo non si faccia tutto un calderone. E invece in Notturno le differenze si assottigliano, disperse in un magma di sequenze simili dove i protagonisti sono tutti rassegnati, sconfitti e privi di speranza (solo leggendo questa recensione su Panorama sono riuscita a sapere dove erano state girate le varie scene e tra l’altro non si riesce a capire dove sia finito il Libano, di cui sopra).

La fotografia è senza dubbio uno dei punti di forza, eppure allo stesso tempo una grande debolezza del film. Le immagini di Notturno sono davvero splendide nella loro nitidezza: alcune sembrano degli acquarelli, per quanto sono vivide e piene di colori. Come la sequenza del cacciatore di frodo che si apposta all’alba, dentro un canneto nel sud dell’Iraq, o quella che vede protagonista il bambino nascosto dentro un albero per ripararsi dal vento, sul cui volto bellissimo, ma allo stesso tempo terribile e doloroso, si legge tutta la sofferenza del (suo) mondo. Eppure, queste scene così esteticamente perfette sono troppo perfette, al punto che viene da chiedersi se il regista abbia preferito costruire una sequenza impeccabile dal punto di vista estetico, piuttosto che approfondire cosa c’era dietro quello sguardo così gravido di sofferenza. I personaggi raccontati in Notturno diventano così delle figure piatte, senza sfondo, che sembra servano solo a costruire un set preconfezionato nella mente del regista, piuttosto che essere delle persone vere e calate nelle loro realtà. Non c’è empatia, non passano le emozioni evidentemente vissute dal regista in quei tre anni in Medio Oriente: la sua poetica è fine a sé stessa e non ha molto altro da dire allo spettatore.

Ha detto Rosi: «Ho cercato di raccontare la quotidianità di chi vive lungo il confine che separa la vita dall’inferno. Durante i tre anni di viaggio ho incontrato le persone che vivono nelle zone di guerra. Ho voluto raccontare le storie, i personaggi, oltre il conflitto. Sono rimasto lontano dalla linea del fronte, ma sono andato laddove le persone tentano di ricucire le loro esistenze. Nei luoghi in cui ho filmato giunge l’eco della guerra, se ne sente la presenza opprimente, quel peso tanto gravoso da impedire di proiettarsi nel futuro».

E ancora: “Per me era importante trovare delle storie che raccontassero la quotidianità delle zone di guerra, dove si vive tra la vita e la morte, tra la quiete e la distruzione.”

E anche: “Nelle pause, nei rumori, nelle distanze, nei silenzi risuonano i momenti di pace e conflitto che si susseguono in continuazione in Medio Oriente: attimi di quiete alternati a scene di guerra.”

Insomma, un film che non doveva essere sulla guerra ma in cui la guerra si infila dappertutto. Ho già scritto e detto più volte che è il caso di uscire dal tracciato ben noto di guerra-morte-terrorismo-distruzione quando si parla di Medio Oriente, perché c’è anche altro. Anche se pare che quell’altro (la vita, la società civile, l’arte) a volte interessi poco.


Altre due recensioni di Notturno in cui mi sono ritrovata sono questa e questa (ma ce ne sono altre più positive).

Sul genocidio degli yazidi da parte dello Stato Islamico invece vi consiglio di leggere questa mia recensione di un libro bello e doloroso che avevo letto qualche anno fa.

4 commenti

  1. Rosi li chiama documentari, ma non rispetta la realtà. Lui con la realtà ci gioca a suo piacimento per ottenere una forma narrativa perfetta. Hai mai chiesto a un lampedusano che ne pensa di Fuocoammare? La risposta mi ha davvero aperto gli occhi su questo regista che in passato ritenevo ultraterreno per quanto mi sembrava bravo. Appunto, grande fotografia, gira tutto da solo etc etc.
    Condivido appieno questa tua visione.

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