Quando nel 1955 la giovane e timida Wardiya lascia la sua famiglia per andare a lavorare come medico a Diwaniya, nel sud dell’Iraq, erano ancora poche le donne medico in tutto il paese.
Di sicuro lei era la prima dottoressa mai sbarcata col treno in quel paesino tranquillo e conservatore, a metà strada tra la capitale Baghdad e Bassora, il grande porto commerciale dell’Iraq. Ben presto Wardiya diventa la ginecologa di riferimento per le donne della zona: apre il primo reparto maternità dove lei, cristiana, cura le donne di ogni religione e provenienza. A Diwaniya conosce suo marito, un bel medico biondo e con gli occhi azzurri, si sposa e fa quattro figli, che negli anni emigrano alla spicciolata per sfuggire dal loro paese crudele.
A Diwaniya, Wardiya osserva l’evolversi dell’Iraq, da giovane Repubblica piena di promesse, poi ostaggio dei tanti colpi di Stato, fino alla trasformazione in un buco nero lacerato da nazionalismi, personalismi e lotte confessionali. Finchè, a quasi 80 anni e sulla sedia a rotelle, non ne può più di quel caos che è diventato l’Iraq: decide finalmente di andarsene per raggiungere figli e nipoti dispersi ai quattro angoli del mondo.
Tashari è il titolo originale di questo bel romanzo dell’autrice irachena Inaam Kachachi, classe 1952, originaria di Baghdad che vive a Parigi da quasi 40 anni, dove lavora come giornalista. Pubblicato da Dar al Jadeed nel 2013, entra nella shortlist dell’IPAF l’anno seguente, e nel 2016 vince il Prix de la litérature arabe di Parigi. Quest’anno è stato pubblicato da Brioschi editore nella collana Gli Altri, dedicata alle letterature extraeuropee, nella delicata e accurata traduzione di Elisabetta Bartuli.
Tashari in arabo iracheno indica un fucile da caccia che spara proiettili in tutte le direzioni: l’autrice ha voluto usare questa parola, intraducibile, perché era l’unica che poteva rendere il senso della diaspora irachena.
– Tashari.
– E cioè?
– In arabo classico si direbbe: sparpagliati, dispersi.
– Sarebbe a dire?
– Come in un fucile a pallettoni. Dispersi come i pallini di piombo che filano in ogni direzione.
– Ma mamma, cosa fai, scrivi poesie sulle armi e sui proiettili?
– Parlo dei miei familiari, che si sono dispersi nelle città del mondo come se fossero stati sparati via da un colpo di fucile. (Dispersi, p. 94)

Quando Wardiya arriva a Parigi, accolta come rifugiata dal presidente Sarkozy insieme ad un gruppo di altri profughi cristiani, entra a far parte di quella comunità malinconica e nostalgica che sono i rifugiati della diaspora irachena. Un piccolo esercito di persone normali, che comprende anche molti professionisti, tra intellettuali, architetti, medici, insegnanti, farmacisti, che all’estero devono reinventarsi un lavoro. E diventano magari cuochi, fattorini, netturbini. Come loro, Wardiya ha negli occhi ancora l’Iraq della sua giovinezza: un paese colto, elegante, erede di una lunghissima e ricca civiltà. Un paese dove cristiani, musulmani e ebrei convivevano gli uni di fianco agli altri e che negli ultimi decenni era lentamente scivolato in una barbarie inesorabile. Wardiya si ricorda di suo fratello Sulayman, bravissimo nell’arabo classico, che all’esame di maturità risulta il più bravo di tutti e come dono non vuole altro che il Corano, il Libro su cui la lingua araba classica si è plasmata nel corso dei secoli.
Dispersi è anche la storia dei figli e dei nipoti di Wardiya: Hinda, medico come la madre, scappa in Canada con il marito architetto e i due figli e finisce per lavorare in una riserva indiana in Manitoba. Yasmine si decide a sposare un uomo mai visto che vive negli Emirati, il non-luogo arabo per eccellenza. Barraq, l’unico maschio, lavora per le Nazioni Unite in giro per il mondo.
A Parigi, Wardiya viene accolta dalla famiglia della nipote la quale ha un figlio adolescente, Iskandar, che non sa quasi nulla dell’Iraq. A contatto con la prozia, Iskandar impara l’arabo iracheno, conosce la storia della famiglia, scopre nomi e storie dei membri della famiglia per lo più morti, si appassiona alle vicende di quei personaggi che non ha mai visto prima e a cui si sente legato da un filo invisibile ma indissolubile che si chiama famiglia. A loro dedica un cimitero virtuale sul suo computer che costruisce grazie alla zia, la cui fervida memoria disegna le linee della genealogia per non dimenticare nessuno. E così, su un computer parigino, i vari rami della famiglia si ricongiungono in un cimitero dove ognuno ha la sua tomba accanto ai propri familiari. Dove i dispersi non sono più dispersi. Dove i mariti possono essere sepolti accanto alle mogli, e i figli riposano di fianco ai genitori. Il mosaico dell’Iraq contemporaneo si ricompatta sullo schermo di un pc, in un aldilà virtuale.
Dispersi è un romanzo storico sull’Iraq moderno: mi viene da dire che è davvero uno di quei romanzi attraverso cui si può imparare qualcosa sul paese in cui è ambientato, senza nulla togliere alla grazia e alla delicatezza con cui è stato scritto e tradotto.
Ma è anche la storia di chi scappa dalla propria patria non volendo e di chi, a quella patria, rimarrà per sempre legato. È il racconto di chi fugge dalla guerra in casa, dove non c’è chi li aiuta “a casa loro”.
[edit: Inaam Kachachi e Elisabetta Bartuli saranno a Più libri più liberi a Roma domenica 9 dicembre 2018 alle 14.30.]
Bonus track: video
Il documentario qui sotto è stato realizzato da British Pathé e mostra com’era l’Iraq negli anni ’50: è condito da molto colonialismo ed esotismo e riflette il cliché del paese che prima dell’arrivo della civiltà (leggi: quella occidentale) era ancora immerso nel deserto e nelle sue antiche tradizioni. Ve lo segnalo perché, a parte il retrogusto orientalista e imperialista, è interessante vedere com’era effettivamente l’Iraq prima del petrolio, delle lotte civili, prima di Saddam Hussein e del confessionalismo. A me ha colpito molto, per esempio, vedere la città meridionale di Bassora: in quegli anni veniva chiamata la “Venezia del Medio Oriente” per via della sua architettura e dei larghi canali che la percorrono. Oggi è il principale porto iracheno nonché sede delle più grandi compagnie petrolifere mondiali: a Bassora si produce qualcosa come l’80% del petrolio di tutto l’Iraq che viene esportato in mezzo mondo. È afflitta da un inquinamento che ha raggiunto livelli indicibili: nel mese di ottobre sono morti migliaia di pesci e circa 70mila persone sono rimaste intossicate a causa dell’acqua potabile contaminata.
Bonus track: informazioni di contesto
Secondo un recente rapporto dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, la prima ondata di sfollati interni (1 milione di persone) si verificò nel 1979, quando Saddam Hussein divenne formalmente presidente e l’anno dopo entrò in guerra contro l’Iran. Durante la prima Guerra del Golfo del 1991, furono 2-3 milioni gli iracheni che fuggirono verso i paesi confinanti. Nei primi tre anni dall’invasione statunitense del 2003, circa un milione di persone scappò dalle violenze. Nel 2006, l’inizio di un nuovo ciclo di violenze confessionali costrinse 2,7 milioni di iracheni a scappare dalle proprie case verso altre regioni in Iraq, mentre 1,8 milioni furono quelli che riuscirono a fuggire all’estero, in particolare in Siria e Giordania. Se tra il 2008 e il 2012 centinaia di migliaia di persone tornarono, dal 2013 – con l’emergere dello Stato Islamico che cominciava a occupare larghe porzioni dell’Iraq centro-occidentale – ricominciò anche l’emergenza sfollati e rifugiati. “Tra dicembre 2013 e dicembre 2017 circa 5,8 milioni di persone erano state costrette a lasciare le proprie case e 3,2 milioni erano riusciti a tornarci alla fine del 2017” (quando lo Stato Islamico è stato dato come ufficialmente sconfitto). Secondo UNHCR, gli iracheni rifugiati nel mondo oggi sono 240mila, mentre ancora circa 3 milioni sono sfollati interni.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.
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