In quel tempio meraviglioso che è l’Istituto del mondo arabo di Parigi si è tenuto un incontro su Beirut, il Libano e il ruolo della letteratura con tre grandi scrittori libanesi. Paola Rotolo era lì (anche) per editoriaraba e ne ha scritto quanto segue.
di Paola Rotolo
È possibile dire la città di Beirut, stabilire un rapporto privilegiato con essa in quanto scrittori libanesi? Muoveva da questo interrogativo l’incontro tenutosi presso l’Institut du Monde Arabe di Parigi lo scorso 20 novembre, nell’ambito dei “Jeudis de l’IMA”, incontri a carattere politico e culturale a cadenza settimanale.

Ad animare il dibattito, a tratti sarcastico verso alcune ingenuità del pubblico, c’erano lo scrittore Jabbour Douaihy (nato a Zgharta, nel nord del Libano, professore di letteratura francese all’Università Libanese di Beirut, autore di Pioggia di giugno e San Giorgio guardava altrove, editi entrambi da Feltrinelli e tradotti dall’arabo da Elisabetta Bartuli), la scrittrice Hoda Barakat (nata a Bsharre, nel nord del Libano, residente prima a Beirut e poi a Parigi dal 1989, conosciuta in Italia per Malati d’amore, Lettere da una straniera e L’uomo che arava le acque, tradotti dall’arabo da Samuela Pagani) e lo scrittore Charif Majdalani (forse tra i tre il meno familiare al lettore italiano, ma nato a Beirut e professore di letteratura francese all’università Saint-Joseph della capitale, autore di quattro romanzi in lingua francese, Le Dernier Seigneur de Marsad, Nos si brèves années de gloire, Caravanserail, Histoire de la Grande Maison, tradotto in italiano da Elena Chiti con il titolo La casa nel giardino degli aranci).
Gli scarni dati biografici riportati testimoniano del rapporto travagliato e articolato di questi tre autori con il proprio Paese, la lingua, la scrittura, e la conversazione stessa ha riflesso un’oscillazione costante tra vissuto personale e vissuto collettivo in quanto libanesi.
Una “letteratura in due tempi” quella libanese, secondo Majdalani, sospesa tra un prima e un dopo la guerra civile. La letteratura del prima, quella prodotta fino alla prima metà degli anni ’70, tesa nello sforzo di giustificare il Libano, pensarlo come nazione, costruirlo attraverso una narrazione ideologizzante.
La letteratura del dopo attraversata dal dubbio, dal questionnement, dalla ricerca di una ragione alla violenza di cui non ci si credeva capaci.
“Non era più possibile mettere insieme i pezzi di un edificio che avevamo costruito in maniera così laboriosa”.
Ciò che caratterizza la letteratura del dopoguerra è la rilettura costante, la messa in questione della storia moderna e contemporanea del Libano. Ancora, il 1975 per Douaihy è “l’anno in cui tutto è caduto” e il romanzo è sembrato il genere più adatto a descrivere il Caos, le facce di una realtà complessa; la poesia, che aveva caratterizzato la letteratura del prima è così sopravvissuta nella sua forma intimista e non più politica.

Anche Hoda Barakat ha ricordato il momento in cui
“un giorno ci siamo svegliati e ci siamo resi conto che non c’era storia, ma solo mito; la mia generazione è stata la prima a dover fare i conti con questo vuoto, con questo fallimento. Siamo partiti dalla domande che Beirut ci poneva, poi abbiamo spinto i confini un po’ più in là, abbiamo raccontato le regioni dove siamo nati, altri microcosmi. Spostandomi nel nord del Libano, la realtà che conoscevo meglio, e narrando le vicende di una famiglia [in Le royaume de cette terre, nota mia] volevo capire come si è passati dalla fase dell’indipendenza, al mito, alla guerra civile. Ho parlato di un posto specifico, ma sostituendo i nomi si può adattare questa violenza tra fazioni differenti in Iraq, oggi in Siria… Siamo stati precursori anche in questo”.
Il movimento descritto da Barakat, da Beirut ai piccoli paesi della provincia libanese e da questi ancora a Beirut, nella continua esplorazione delle pieghe della storia e della violenza fratricida, ha caratterizzato anche la scrittura di Douaihy, che muove dalle montagne del nord del Libano di Pioggia di giugno e della prima parte di San Giorgio guardava altrove, alla Beirut del ventenne Nizam che arriva nella capitale per vivere
“quel periodo di euforia che tutti abbiamo vissuto. Quella di Nizam, nato musulmano ma cresciuto da una famiglia maronita, è un po’ la nostra storia, di chi è arrivato in una Beirut punto di incontro per cambiare se stesso e il mondo, ma si è svegliato in una città divisa in zone, in uno spazio pieno di linee di demarcazione”.
La guerra civile ha riportato dunque la letteratura alla storia, e in particolare il romanzo è tornato sui passi della Storia attraverso le storie familiari, le storie individuali, il corpo, l’intimo, dimensioni che continua ad esplorare.
Questa volontà da parte della generazione di scrittori che hanno conosciuto la guerra civile ma anche di quelli nati dopo la guerra, è dovuta infatti, secondo Majdalani, al fatto che “si è ricostruito ma non risolto” il Paese, le sue contraddizioni, in un miracolo di bricolage politico e architettonico, come l’ha definito qualche minuto dopo Douaihy.
Tutta la letteratura libanese a partire dagli anni ’70 è attraversata da questa energia narrativa, dalla tensione fra grande e piccola storia, tra storie che finiscono per urtare contro la Storia, e non semplicemente toccate o sfiorate da essa: “C’è sempre un momento della storia individuale, di ciascuno di noi, in cui si finisce per sbattere contro la Storia”, nelle parole di Majdalani.
Sommando queste tendenze, queste tensioni ci è forse possibile capire la posizione privilegiata di cui gode la letteratura libanese contemporanea rispetto alle altre letterature arabe, o almeno ne è convinta Hoda Barakat: “Non solo altre letture e altre letterature, ma anche la guerra civile hanno nutrito il nostro sguardo su noi stessi, la nostra autocoscienza e nel romanzo è stato possibile passare dal livello sociologico, di testimonianza, a quello esistenziale, al come si guarda a se stessi”.
L’ultima parte della conversazione è stata per Hoda Barakat la più intima, quasi una confessione che ha riguardato il rapporto fra lo spazio geografico, l’esilio e l’individuo e che i lettori e le lettrici italiani/e possono ritrovare in Lettere da una straniera (Ponte alle Grazie 2006).

Barakat ha parlato dell’inadeguatezza del verbo “partire” e del bisogno di una cartografia personale da sovrapporre a quella reale, ancora oggi dopo 25 anni di lontananza da Beirut:
“Non sono partita, sono andata via, fuggita da un Paese in guerra perché avevo due figli piccoli e temevo per la loro sicurezza. Sono venuta a Parigi solo perché mia sorella studiava qui e aveva una stanza, non per la mia carriera o per altro… Continuo a sentirmi libanese, sono attaccata all’idea di venire da lì, quando ho avuto il passaporto francese era troppo tardi per sentirsi francese. Non mi sento però lontana, do ai quartieri parigini nomi di quartieri del Libano, scrivo del Libano tutto il tempo, è come se oggi non avessi bisogno di essere là per essere là. Sono partita ad una certa età, quindi sento il bisogno di questa geografia; è troppo tardi per essere francese, cosa che non è accaduta ai miei figli… Loro si sentono a proprio agio sia qui che lì”.
L’incontro si è concluso con le solite domande a carattere geopolitico, prontamente respinte dal moderatore (il giornalista Alain Nicolas). Una su tutte: “Il Libano sarà mai un Paese normale?” La risposta corale degli autori, che faccio anche mia, è stata “Speriamo di no!”.
L’ha ribloggato su grazielladwan.